L’Unione Europea omette corpo, moviento e sport dalle Competenze fondamentali per la formazione di cittadine/i

Denunciare questa grave mancanza da parte dell’Unione, riappropriaci di un linguaggio problematico che è quello delle competenze, significa anche evidenziare che il sapere che la scuola produce in Italia, ma in tutta Europa è una conoscenza parziale e limitata fondata su alcune dicotomie conservatrici e dannose: il corpo e la mente, le emozioni e la razionalità, io e l’altro. Dicotomie che possiamo far rientrare nell’ambito di ciò che gli studiosi del Sudamerica ci hanno insegnato a chiamare colonialità del sapere.

Un esempio concreto. Una delle competenze già individuata in UE è la competenza multiliguistica. Vi sembra che nelle nostre scuole questa competenza venga applicata ad esempio nei riguardi di studenti e studentesse migranti di seconda e terza generazione?

Rispondo citando un bravo collega, Giuseppe Gabrielli, storico della scuola, che usava fare come gioco didattico questo esperimento: chiedere a studenti e studentesse provenienti da altre culture di insegnare ai propri compagni a contare fino a 10 nella propria lingua.

Ecco che un soggetto che risultava manchevole in un ambito, ad esempio la lingua italiana, contemporaneamente diventava portatore di altre forme di ricchezza, custode di qualcosa da imparare ed insegnare agli altri fuori da una schema dicotomico e fisso.

Questo per dire due cose. La prima. In questo momento le istituzioni educative nella stragrande maggior parte dei casi sono luoghi di disagio e competizione in cui questo senso di colpevolezza non certo stimolante dal punto di vista dell’apprendimento ti viene gettato addosso ad ogni occasione possibile. L’istituzione di cui faccio parte, l’università, è un’istituzione gerarchica, che prima di condividere sapere, disciplina i corpi e cristallizza le gerarchie. Io sono l’insegnate e devo comunicare il sapere a dei bambini non bambini che non lo hanno, che sono manchevoli. Che ascoltano costretti a stare fermi su sedie inchiodate al pavimento, in classi chiuse. E quando proviamo a rompere questo schema proponendo un sapere incorporato che metta in comunicazione ciò che si studia sui libri e le esperienze vive di dialogo e pratica fra soggetti differenti, che è poi quello che proviamo a fare con gli studi partecipati sullo sport popolare in città, ci troviamo davanti resistenze istituzionali a tutti i livelli.

C’è tutto da trasformare nel senso di una liberazione che passa anche attraverso i corpi. C’è l’obiettivo di far vivere a chi è più giovane di noi un altro modello di istruzione che è poi quello che noi non abbiamo avuto. C’è questa possibilità di sovvertire delle pratiche consuetudinarie, delle gerarchie stabilite da parte di istituzioni che hanno una storia fatta di diseguaglianze e le vogliono mantenere.

Allora noi partiamo da qui, dal corpo, dal movimento, dallo sport, dalla rivendicazione di una nona competenza ma sappiamo che la posta in gioco è molto più alta e tira in ballo dicotomie che appaiono immutabili e riguarda il ruolo stesso del sapere, del come si apprendere, del come si sta assieme, del come si concepisce e si pratica un altro tipo di società e assieme un altro tipo di sport. Un’idea di sport legata al diritto alla città, ad un’idea di corpo non performativa e standardizzata ma connessa al benessere, alla cura collettiva!